Curarsi con i libri è la nostra rubrica in cui vi presentiamo i libri che abbiamo letto per noi e per voi e che ci hanno stimolato riflessioni, considerazioni e suggerimenti sui temi che riguardano il nostro lavoro di psicologi psicoterapeuti, la salute mentale e la promozione del benessere psicologico. 

In questo primo articolo della serie Curarsi con i libri vi presentiamo “Sognavo di correre lontano” di Ron McClarty. Un romanzo di esistenze ai margini piene e delicate che intrecciandosi delineano la dimensione umana di condivisione che fa di ogni incontro un’avventura, come la traversata dell’America o la nascita di una relazione.

La trama

Smithson Ide ha quarant’anni, una dipendenza da alcol e centoventisei chili sulle spalle quando inforca la bicicletta dell’infanzia per raggiungere la costa opposta degli Stati Uniti. Del suo viaggio, fatto d’asfalto e chilometri ma anche di introspezione e cambiamento, tre temi saltano all’occhio: il ruolo del caregiver nella malattia psichiatrica, la disabilità fisica, il lutto.

Negli anni ‘60 Smithson vive ad East Providence, nel Rhode Island, insieme ai genitori ed alla sorella maggiore Bethany.

Smithy ha appena perso i genitori in un incidente stradale quando scopre che anche la sorella è morta e parte alla volta dell’obitorio di Los Angeles per riportarla a casa con sé: anni prima la “maledetta vocina” che sentiva durante i deliri l’aveva trascinata lontana dalla famiglia cancellando ogni traccia. Unica costante del pellegrinaggio, oltre al ritmo della pedalata, la voce di Norma, vicina di casa che un incidente ha costretto sulla sedia a rotelle in un isolamento senza conforto, finalmente spezzato dalle telefonate che si scambiano mentre lui corre lontano. 

Smilzo e solitario, percorre la campagna in bicicletta per andare a pesca o alla ricerca di Bethany: non c’è una diagnosi precisa, solo diversi ricoveri, farmaci sedativi e fughe in cui assume pose immobili in posti impensati, si lacera la pelle e parla con voci che non sono la sua. “A volte mi capitava di desiderare che restasse così per sempre, pietrificata… così non saremmo vissuti nel terrore che la voce se la portasse via” e proprio in posa Smithy continuerà a vederla durante gli anni di assenza ed il lungo viaggio: un miraggio, una presenza consolatoria anche se insufficiente.

Caregiver e malattia mentale

Nei primi capitoli, il protagonista lascia spazio alla sua tristezza: “hai sempre la sensazione che ci sia qualcosa di incompiuto quando una persona che adori non sta bene” ed alla sofferenza dei genitori: “mamma era splendida, papà era splendido. Quando Bethany scomparve per l’ultima volta abbandonarono il loro naturale ottimismo: realizzarono che la vocina che la tormentava aveva avuto la meglio su di lei”. Esplora poi la difficoltà di prendersi cura di una persona portatrice di una patologia psichiatrica: “mia sorella era il centro delle nostre vite. Il miserabile fulcro attorno al quale ruotavano le nostre esistenze”.

Nella fatica nascono emozioni diverse, talvolta contrastanti e forti.

“Dio sa che le ho sempre voluto bene, ma in certi momenti ero anche arrivato ad odiarla, forse perché non mi ero mai davvero opposto alla sua voce. L’odio è difficile da ammettere” // “Avrei volentieri ammazzato quella dannata voce con le mie mani, se non fosse stata dentro di lei” . Alle difficoltà si aggiunge l’isolamento, talvolta lo stigma: Smithy non parla con nessuno della situazione di sua sorella: “non che ne avessi vergogna, ma è una cosa che non si può spiegare e, anche se si potesse, ne verrebbe fuori una sorta di giustificazione. E io non dovevo giustificarmi per via di mia sorella”. 

Malattia mentale e stigma

Gli specialisti che Bethany e la sua famiglia incontrano sulla propria strada non aiutano ad identificare e gestire l’esordio del suo disturbo, né tantomeno il suo decorso. Lo stigma associato ai disturbi mentali allontana dalla comprensione sia chi ne soffre sia la popolazione generale, aumentando il senso di solitudine ed emarginazione dei portatori e delle loro famiglie.

Dare un nome ad un problema significa riconoscerne l’esistenza, e questo è il primo passo per poter dare voce alla sofferenza e costruire un piano di cura e di gestione delle difficoltà ad esso legate.

Per molto tempo la scarsa consapevolezza in merito al tema ha generato confusione sul ruolo della diagnosi, che spesso si è trasformata in un’etichetta denigrante e sterile, anziché in uno strumento d’aiuto.

Malattia mentale e diagnosi

Lo scopo principale delle attuali diagnosi psichiatriche è invece quello creare un linguaggio comune per aiutare gli operatori sanitari a comunicare fra di loro così da individuare la forma di trattamento da prescrivere. Nel campo medico, trovare una cura farmacologica adatta è un processo complesso e necessario, che può richiedere diversi tentativi prima di trovare la combinazione più adatta al singolo caso.

Anche nel campo psicologico il percorso è tutt’altro che segnato e va cucito sulla persona, sulle sue risorse personali e sull’ambiente che la circonda, caregiver compresi. Nell’immaginario collettivo la psicopatologia fa ancora paura, ma le conoscenze odierne permettono di fare chiarezza e di allontanarci dalla visione stereotipata che spesso accompagna i disturbi mentali, anche quelli più severi come le psicosi o i disturbi di personalità. Ad oggi ci sono buone risposte per molti disturbi psicopatologici, le cure riducono gli effetti collaterali ed esistono programmi in grado di aiutare le famiglie ad essere di supporto e supportate nel processo di cura.

Malattia mentale e carico dei care-giver

Una solida letteratura scientifica conferma infatti come le famiglie di un paziente portatore di grave patologia mentale sperimentino alti livelli di carico (burden) oggettivo e soggettivo e di stress più elevati rispetto alla popolazione generale. Questo carico non dipende dalla diagnosi né dal funzionamento psicosociale del paziente, bensì dalla durata della malattia e dalla frequenza delle ricadute, dalla pervasività e disorganizzazione dei sintomi, dall’ideazione suicidaria, dall’occupazione e dall’età del familiare, dallo stigma, dal numero di ospedalizzazioni. Tutto ciò impatta sia sulla qualità della vita che sulla percezione di efficacia da parte del sistema curante.

Disabilità fisica

Nella casa accanto a quella degli Ide vive Norma Mulvey: ha sei anni, è graziosa e timida, adora Smithy e Bethany e chiama “mamma” e “papà” i loro genitori, mentre sua madre per lei è “Bea”. Un’estate viene investita da un’automobile e quando torna a casa in sedia a rotelle è triste, non fa che piangere… Bethany inizia a dare i primi segni di autolesionismo, così la famiglia Ide smette di prendersi cura di Norma. Smithy la osserva nascosto dalle veneziane e sa che anche la piccola li spia, ma nessuno muove un passo: “non capirò mai perché la mia famiglia decise di lasciarla sola, di non andare più a trovarla. Sarebbe troppo facile addurre la condizione di Bethany come scusa, o dire che non eravamo in grado di essere o dare più nulla” // “Il dolore allontana le persone”.

Quando, nell’ultimo periodo sereno prima della fuga finale, Bethany si sposa, Norma rifiuta categoricamente di partecipare al matrimonio nonostante l’invito caloroso: teme lo sguardo pietoso della gente, soprattutto la reazione di Smithy, di cui è innamorata da sempre. I due si incontrano trent’anni dopo al funerale degli Ide: “la sedia a rotelle scintillava, Norma mi guardava con aria di sfida // immagino che una persona costretta su una sedia a rotelle finisca con l’adottare un atteggiamento di sfida, nei confronti del prossimo”.

Malattia e autonomia

Norma sente la necessità di sottolineare la propria autonomia: “dal momento che non ci vediamo mai ci tengo a dirti come stanno le cose, non voglio che pensi che mi trascini per la casa di Bea senza fare niente. Lavoro, pago le bollette, mi prendo cura di mia madre e non il contrario. Ho un furgone che posso guidare manualmente e tutti gli attrezzi per seguire il mio allenamento cardiovascolare. Riesco a muovermi molto bene, davvero”. Queste premesse non hanno valore per Smithy, che la vede per quello che è: una donna forte, solida, indipendente, capace di provare emozioni forti e contrastanti e di esprimerle così come sono.

Durante la traversata Norma sarà una presenza calda e rassicurante: “è la vita Smithy, non si scappa. Dobbiamo andare avanti ed essere forti. E il modo migliore per farlo è contare sugli altri ed avere il coraggio di fidarsi di loro”.

Nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ridefinito la salute passando dal concetto di “assenza di malattia o infermità” all’idea di una condizione completa di benessere fisico, psicologico e sociale.

La disabilità può essere di diverso tipo (psicologica, fisica, sensoriale), può avere origine congenita o acquisita e genera conseguenze a livello sociale definite “handicap”. Il contesto può fungere da barriera o al contrario da facilitatore delle potenzialità della persona diversamente abile: vigore fisico (frutto anche di trattamenti abilitativi, riabilitativi e terapeutici), serenità emotiva e un contesto sociale che sostenga le relazioni e permetta di esercitare il libero arbitrio sono fondamentali per garantire una buona qualità di vita. Per questo è necessario ristrutturare il contesto esterno, ottimizzando la dimensione occupazionale e del tempo libero e, al contempo, sostenere l’interiorità della persona nella scoperta di nuove chiavi di lettura della propria condizione e del proprio stare nel mondo. 

Lutto

Al funerale dei genitori, stordito dall’alcol e dalle emozioni, Smithy cerca ossigeno sul vialetto di casa: “la cassetta pullulava di lettere: non si ferma nulla quando muori”. Tra le lettere, una arriva da Los Angeles ed informa gli Ide del decesso della figlia. Smithy non sapeva che il padre avesse continuato le ricerche: “il mio respiro si fece corto sino a mancarmi del tutto e sentii una sensazione di panico partire dal petto ed avvolgermi completamente. Bethany, mamma e papà se ne sono andati; te ne sei andata anche tu. Ora cosa faccio?” . Persino in obitorio, alla fine della sua avventura, continuerà ad avvertire un senso di irrealtà: “diedi un bacio a quell’estranea che aveva gli stessi denti di mia sorella e richiusi il coperchio”.

La perdita di una persona cara è un’esperienza dolorosa e devastante: si avverte la sensazione che, insieme al proprio caro, se ne vada anche una parte di sé.

“Non è facile lasciarsi alle spalle una famiglia. A volte ti capitano cose che rendono difficile il semplice stare in piedi: ti cedono le ginocchia, le gambe, il cuore”. Ogni persona affronta questo dolore a modo proprio, anche a seconda del legame con la persona morta, del tipo di morte (più o meno improvvisa) e della resilienza.

Solitamente l’elaborazione del lutto passa da una fase di rifiuto e negazione (soprattutto se traumatico ed improvviso) ad una lenta e graduale accettazione della perdita e delle emozioni di disperazione e rabbia.

Questo percorso però può essere carico di sofferenza ed angoscia: il lutto è una ferita profonda da rimarginare e richiede tempo, ma anche un lavoro personale fatto tanto di nostalgia, ricordi ed emozioni con i quali lentamente si impara a convivere, riconciliandosi con sé. Nella ricostruzione del proprio significato, la persona che ha subìto una perdita potrebbe sentire il bisogno di un cambiamento sia interiore sia della realtà in cui vive: “quello che sto cercando di dirvi è che non ero più una valigia piena zeppa di roba in disordine. Avevo imparato a prendere solo ciò che mi serviva davvero”.

Hanno letto per voi “Sognavo di correre lontano” di Ron McClarty e firmano questo articolo, Virginia Hurle e Martina Segale del Centro Psicologia Maggiolina che hanno anche presentato il 20 Gennaio 2023 in un incontro alla Biblioteca di Viale Zara 100, nel Municipio 2 a Milano. Seguiteci su Facebook e Instagram per i nuovi appuntamenti di Curarsi con i libri presso la Biblioteca.

BIBLIOGRAFIA:

Gargano, M. T. et al. (2016). Rivista Psichiatrica, 51(4), 135-142. doi 10.1708/2342.25116

Cipolletta, S., Entilli, L. & Filisetti, S. Uncertainty, shock and anger: Recent loss experiences of first-wave COVID-19 pandemic in Italy. (2022). Journal of Community & Applied Social Psychology, 32, 983–997.

https://www.stateofmind.it/2014/04/qualita-vita-disabilita-tempo-libero-persona-disabile/

https://www.stateofmind.it/2014/11/identita-sociale-disabile/